FRANCIA, UNO SU TRE NON È FRANCESE
Per comprendere ciò che è accaduto in Francia nelle scorse settimane non possiamo limitarci alla causa occasionale, l’uccisione - non certo la prima - di un giovane maghrebino di 17 anni da parte di una polizia dal grilletto facile.
Le ricorrenti esplosioni delle banlieues a Parigi e nelle
città di medie dimensioni, sono il risultato di un accumulo di tensioni che
hanno radici lontane e profonde.
Indubbiamente le banlieues, per la loro storia e la
concentrazione di frustrazione sociale, sono bombe ad orologeria e la
dimostrazione più evidente del fallimento della politica di “assimilazione”
attuata dai governi di sinistra degli ultimi trent’anni, ma leggere il
sollevamento giovanile come una specificità etnico razziale è certamente
riduttivo rispetto alla realtà dei fatti.
Queste città nelle città sono prevalentemente abitate da immigrati o da autoctoni con un livello medio basso di reddito, spesso disoccupati o con lavori precari, occasionali, in nero, poco scolarizzati, in buona parte dediti allo spaccio e alla microcriminalità, bande di giovani che campano alla giornata.
L’inflazione ha giocato in tutti i paesi europei un calo drastico della capacità di spesa soprattutto a danno delle famiglie più povere, l’ipotesi più plausibile è che l'uccisione del giovane magrebino abbia fatto esplodere la rabbia repressa di giovani che vivono una condizione di crescente povertà - nipoti di immigrati storicamente emarginati dalla società - unita alla consapevolezza che non potranno mai uscire da quella condizione perché funzionale alla politica.
I giovani in rivolta, sia i bianchi che gli eredi di immigrati, hanno visto crescere l’incertezza per il futuro di fronte allo scollamento crescente tra la loro realtà e le politiche del governo.
Sono i nipoti di famiglie da decenni relegate, confinate e concentrate in aree periferiche delle città in gruppi etnicamente omogenei che hanno formato comunità immigrate ad alta densità territoriale, in cui è radicata la consapevolezza di essere “cittadini di serie B”, dunque focolai di un rancore latente tramandato da generazioni e nuovamente esploso nelle scorse settimane in seguito all’uccisione di Nahel.
Analizzando e rielaborando i dati Eurostat, nel 2020 in Francia erano presenti tre generazioni di immigrati come risultato dell’andamento storico, pertanto un terzo degli abitanti della Francia ha almeno un nonno o un genitore di origine straniera, la cui presenza si assottiglia fino ad annullarsi dopo i 60 anni per il ritorno in patria in seguito al pensionamento.
La letteratura insegna che la prima generazione di immigrati arriva disposta al sacrificio, cioè a molto lavoro e bassi salari, ma in cambio si aspetta per i figli una buona istruzione e un futuro migliore di quello dei padri, in particolare questo è vero per asiatici e magrebini.
L'INGANNO DELLA SCUOLA PUBBLICA
La politica ipocritamente buonista della sinistra di accogliere tutti poi si vedrà, caricando per decenni i servizi sociali di funzioni anche di ordine pubblico (la polizia sta sempre alla larga dalle terre di nessuno, salvo poi sparare all’occasione per marcare il territorio) ha fallito su tutti i fronti, dal processo di scolarizzazione, all’ingresso nel mondo del lavoro, al debutto sociale.
Negli anni fra 1985-95 della cosiddetta “democratizzazione scolastica”, che avrebbe dovuto offrire ai ragazzi provenienti da famiglie povere e/o immigrate la possibilità di raggiungere l’equivalente del nostro diploma (il Bac), lo stato occupato dalla sinistra ha finto di lavorare in tal senso, ma nei fatti ha messo in campo una sotterranea e sistematica barriera all’ingresso.
Una serie di studi dimostrano che in quel decennio la discriminazione sociale si è realizzata dirottando questi ragazzi verso le filiere della scuola secondaria meno prestigiose, indipendentemente dalle capacità o dalle aspirazioni. All’uscita dalla scuola media si sono incanalati i ragazzi stranieri - anche molto bravi a scuola - verso percorsi di formazione professionale che inibiscono l’accesso ai cicli di studio di livello superiore come l’università e dunque a professioni di più alto profilo.
Dai colloqui diretti con gli studenti si evinceva che le
aspettative dei genitori stranieri erano grandi, per cui premevano sui figli
perché si impegnassero molto a scuola, credendo nel meccanismo della
meritocrazia e nella scuola come “ascensore sociale”, ma nel corso dei decenni
hanno visto indirizzare i propri figli automaticamente nei percorsi di
istruzione professionale e l’hanno vissuta come una ingiustizia sociale poi
metabolizzata come una discriminazione etnico-razziale.
NULLA DA PERDERE
All’analisi socio-economica va di pari passo quella culturale, sì perché in particolare le terze generazioni hanno vissuto una forte contraddizione tra le tradizioni familiari fortemente ancorate a valori fondati sulla religione (in particolare islamica) e la cultura del “dio stato laico” imposta dalla scuola pubblica francese, che ha reso evidente a questi giovani che tutto l’indottrinamento “libertè, egualitè, fraternitè” ricevuto dalle istituzioni, quale veicolo di emancipazione sociale, si è rivelato un grande inganno.
E così gli eredi di quel bacino di manovalanza - di quella
forza lavoro relegata per trent’anni nella cantina dello stato - oggi sono allo
sbando, delusi e arrabbiati perché orfani di riferimenti valoriali e culturali
sui quali fare affidamento, basta l’ennesima ingiustizia perché si manifestino
istintivamente e disordinatamente in forme insurrezionali.
Non hanno nulla da perdere, sono migliaia i giovani che
possono continuare a vivere di sussidi, a delinquere e a dormire nei ghetti, a
sopravvivere senza prospettive, hanno tanto tempo e poco da fare e la
ribellione può diventare per loro una ragione di vita, restituendo in violenza
ciò che gli è stato negato e quale riscatto per i sogni infranti delle loro
famiglie.
E se pensiamo al minimo comune denominatore di questa
generazione – schiacciata tra il credo che in famiglia è legge e uno stato di
diritto che sta minando il fondamento della famiglia – possiamo immaginare le
contraddizioni che albergano nella mente e nei cuori di questi ragazzi che
popolano le periferie di tutta Europa, (le proteste si sono presto allargate a Svizzera e Germania e il mainstream ha smesso di occuparsene) sui quali sono già pronti a buttare
benzina e fare proseliti organizzazioni islamiche estremiste e altre che si
richiamano alla lotta contro il capitalismo, come avvenuto per gli episodi di Charlie
Ebdo e Bataclan.
L’ipotesi che i disordini nelle periferie francesi siano stati pilotati dallo stato allo scopo di fomentare la ribellione al fine di giustificare nuove stringenti misure di controllo sociale e implementare più pressanti limitazioni della libertà – posizione espressa da buona parte del mondo "antisistema" – non considera le ricadute in termini di consenso delle operazioni poco ortodosse messe in atto dalle forze dell’ordine, già viste anche durante le manifestazioni francesi guidate dai sindacati contro la riforma delle pensioni.
I primi giorni di luglio il presidente Macron ha pubblicamente manifestato il suo disappunto (annullando il giorno stesso due importanti appuntamenti diplomatici) in seguito alla divulgazione di un sondaggio dell'istituto "Ifop" (www.ifop.com) dal quale emerge che il 56% dei francesi ritiene che "le violenze della polizia corrispondano alla realtà" (percentuale che sale al 72% nella fascia di età 18-24 anni) e che solo il 42% ha dichiarato di "avere ancora fiducia nelle forze dell'ordine", gradimento che scende al 28% nei giovani under 35 anni e al 19% nella fascia 18-24 anni.
La digitalizzazione della vita dei cittadini, l’installazione
delle telecamere e lo sviluppo delle città quindici minuti procedono spedite
con metodi indolori e convincenti, tanto che la maggioranza delle popolazioni europee non
solo non le osteggia, ma le sta accogliendo come strumenti di progresso.
La pandemia è stata lo strumento letale di distruzione della logica
e della capacità critica, pertanto il grosso è stato fatto, non c’è bisogno di
mattanze che abbassano il livello di gradimento dei governi nelle popolazioni per
ottenere ciò che è già realtà.
Le moderne dittature manipolano le masse con l'arma della persuasione e detengono il controllo sociale del consenso e del dissenso attraverso le tecnologie digitali, credere che il dominio degli stati sui popoli avvenga ancora attraverso l'uso della forza fisica, significa non avere compreso la lezione pandemica e la rivoluzione già vinta dai monopolisti del potere.
Le insurrezioni nelle banlieues in seguito all'omicidio di un minorenne a sangue freddo, così come le spontanee e ingestibili manifestazioni milanesi no green pass contro la dittatura sanitaria, non piacciono ai governi perché impongono l'uso della coercizione che mina la reputazione democratica dello stato, oltre che l'investimento di immani sforzi investigativi sul campo, infiltrazioni comprese.
Forse a gradire la guerra sul campo sono i soldati che imbracciano le armi e i loro superiori, per giustificare la propria esistenza o dare sfogo alle proprie frustrazioni, ma questa è un'altra storia.
Monica Bacis
@monibaci
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